Un altro vino è possibile? Un giorno a Vinitaly alla scoperta del “vino artigianale”

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Anfore, fermentazioni spontanee, metodi ancestrali, biologico, biodinamico… Ma il vino “come una volta” è buono da bere?

Un altro vino è possibile? La sfida tra Davide e Golia si combatte anche in vigna: da una parte i piccoli produttori che rivendicano la volontà di “esprimersi nella trasparenza, autenticità e individualità”, dall’altra i colossi da milioni di bottiglie che cercano di assecondare il gusto del grande pubblico.

L’associazione Vi.Te, Vignaioli e Territori, ha schierato oltre cento dei suoi produttori in un padiglione di Vinitaly 2017 dedicato al vino “artigianale”; quello che “esprime il sapore della terra in cui nasce, che si genera nella diversità, nella consapevolezza e nella presenza” e si lega a doppio filo con chi sceglie l’agricoltura biologica e biodinamica. 

Quando un vino può definirsi ‘bio’?

Iniziamo dal ricordo più dolce della giornata: il Vino Santo trentino dell’azienda agricola Salvetta. Spiccano sentori di frutta secca, albicocca su tutti, morbidezza al palato e una piacevole freschezza, fondamentale per la beva di un passito dolce come questo. Meno a fuoco l’altro classico trentino proposto, la nosiola: pecca per un naso non molto fine.

Rimaniamo sempre in Trentino e incontriamo l’azienda agricola Foradori di Mezzolombardo che si dedica alla coltivazione dei tipici vigneti dell’area: oltre alla già citata Nosiola, troviamo anche il Teroldego. Alcune produzioni, come lo “Sgarzon” e il “More”, a base Teroldego, fermentano e affinano in tinajas (anfore) con permanenza sulle bucce per otto mesi. I diversi terroir di origine riescono a regalare caratteristiche distintive a ogni declinazione del Teroldego dell’azienda.
Tra le proposte più interessanti della cantina segnaliamo il “Perciso”, prodotto con una varietà autoctona del trentino meridionale, il “Lambrusco a foglia frastagliata”, conosciuto anche come “Enantio”. Colpisce alla visiva il bel rubino acceso, sinonimo di gioventù. Infatti è un vino fresco, caratterizzato da un tannino ancora verde; risulta un po’ ruvido alla beva, ma è una caratteristica da ascrivere più al campo della tipicità che dei difetti.

Ci spostiamo poi in Lombardia alla ricerca di bollicine alternative: l’azienda “Castello di Stefanago” propone spumanti metodo classico “ancestrale”. Siamo sulle colline a sud del fiume Po, tra i 350 e i 500 metri sul livello del mare. Le uve vengono raccolte a “piena maturazione” e la fermentazione (con lieviti autoctoni) si arresta ai primi freddi. In questo modo non si trasformano in alcol tutti gli zuccheri presenti nel mosto. Quando arriva la primavera e aumentano le temperature, la seconda fermentazione in bottiglia riparte in modo spontaneo. Rispetto ad altri spumanti metodo classico, non vengono aggiunti zuccheri esterni per la ottenere la rifermentazione, ma si utilizzano quelli presenti nell’uva.
Gli spumanti “Stefanago Ancestrale (bianco)”, “Stefanago Ancestrale Rosé” e “Stefanago Cruasé” DOCG dell’Oltrepò Pavese sono tutti a base Pinot Nero e vantano grande eleganza e morbidezza, con diversi gradi di complessità a seconda della permanenza sui lieviti. Sono tutti caratterizzati dalla “firma” della cantina: frutta – anche tropicale – al naso e cremosità in bocca. La freschezza, rispetto ad altri spumanti, è in secondo piano. Un prodotto comunque molto morbido, versatile, da abbinare a tutto pasto.

Scendendo in Sicilia incontriamo il signor Badalucco, dell’omonima azienda, che con la moglie Beatriz, spagnola di Siviglia, gestisce il vigneto di famiglia. L’unione siculo-spagnola è stata declinata anche in vigna: Tempranillo, Verdejo e Pedro Ximenez vengono coltivati insieme a Grillo e Nero d’Avola. Nella brochure aziendale celebrano questa intuizione con le parole del grande Leonardo Sciascia: “Se la Spagna, è come qualcuno ha detto, più che una nazione un modo di essere, è un modo di essere anche la Sicilia; e il più vicino che si possa immaginare al modo di essere spagnolo”.
In vigna puntano a preservare la biodiversità e limitano i trattamenti il più possibile: “solo se necessario, mai preventivi e comunque secondo la filosofia biodinamica”.
Parte delle uve sono diraspate a mano, la fermentazione è naturale e la pressatura avviene esclusivamente con i piedi, come si faceva un tempo. A questo punto potrebbe sembrare scontato ricordare che il loro vino non viene modificato in alcuna fase e non subisce filtrazioni.
I loro prodotti sono schietti, talvolta spigolosi e potrebbero non incontrare il gusto dei palati più delicati, soprattutto per i tannini estremamente ruspanti che caratterizzano i rossi prodotti con uve Tempranillo e Nero d’Avola.
Molto interessante invece il “Grillo Verde”, un bianco da uve Grillo e Verdejo che macera sulle bucce per sette giorni. Giallo paglierino intenso, leggermente ossidato – sia alla visiva che all’olfattiva – si contraddistingue per piacevolissimi sentori fruttati di mela verde, grande freschezza e una mineralità marcatamente “salina” che ricorda il vicino mar Mediterraneo.

Ancora più ostici i vini della fattoria umbra “Mani di Luna”. Anche in questo caso le uve vengono pigiate con i piedi e le fermentazioni sono rigorosamente “naturali e senza controllo della temperatura”. Nel “Baratto” (85% Trebbiano 15% Malvasie e Riesling) emerge la sapidità tipica del territorio e al naso il riesling arricchisce il bouquet; purtroppo il resto della produzione, sempre molto “schietta”, perde in finezza.

Coltivazione biologica e fermentazione spontanee possono comunque regalare vini di grande classe. Un esempio lo troviamo a Romena di Pratovecchio, in Toscana. Siamo a 500 metri sul livello del mare, in un clima più fresco del resto della toscana si coltiva il Pinot Nero con il quale il Podere della Civettaja produce un rosso di grande finezza ed eleganza: al naso i frutti rossi si sposano a meraviglia con la spaziatura pepata e le eleganti note balsamiche per regalare un Pinot Nero di grande beva e assoluta eleganza.

Il mondo dei vini cosiddetti “naturali” – una definizione che in sé non vuol dire nulla – nasconde molte scoperte, tantissimi produttori appassionati del loro lavoro e un altalena in termini qualitativi. L’unico modo per scoprire è assaggiare, senza farsi condizionare dalle mode, ma cercando le espressioni più tipiche che ogni territorio sa offrire, con grande curiosità, ma altrettanto spirito critico, perché giustificare difetti o esperimenti poco riusciti con l’attenuante del “naturale” è una scorciatoia. Ma le sorprese, anche positive, non mancano per chi è pronto a cogliere le sfumature.

PS.
Per chi cerca vini senza solfiti (anche al di fuori del mondo dei vini “artigianali”), segnaliamo la linea “WAS”, un marchio di qualità collettivo di vino “without added sulfites”. “Agli inizi degli anni 2000 – spiegano i promotori di WAS – alcune società hanno messo in commercio molecole di origine vegetale che avessero efficacia antisettica e antiossidativa, e dal 2007 hanno iniziato ad utilizzare un estratto di vinacciolo dell’uva e proteine vegetali che aggiunto al vino al posto della anidride solforosa, non solo ha permesso di avere vini microbiologicamente sani, ma anche stabili rispetto alle ossidazioni e, soprattutto senza la devastante interferenza organolettica dei solfiti”.

In occasione di Vinitaly 2015 abbiamo anche incontrato le cantine della Valpolicella che hanno deciso di puntare sul vino biologico e biodinamico.

Andrea Pontara

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